2 domande per mettersi davvero nei panni altrui in contesti di diversità e inclusione
- sabrinafontanella9
- 10 ott
- Tempo di lettura: 3 min
Come combattere l’autoinganno diffuso che le scarpe altrui siano come le nostre?
Negli ultimi anni l’empatia è diventata una parola molto pop e diffusa nei contesti aziendali. Con ragione, è infatti una competenza chiave per interazioni umane efficaci. Tuttavia, nonostante se ne parlo molto, la sua pratica rimane ancora ancorata a principi escludenti
Questo perché, quando si tratta di Diversity, Equity & Inclusion, lo sforzo empatico non si limita al “capire l’altra persona”, ma parte dal rendersi conto di quanto poco la capiamo a fronte di quanto spesso crediamo di capirla.
Tutto molto bello, ma tutto molto concettuale!
Adesso provo a spiegarmi bene con un esempio pratico con il quale inizio spesso le mie aule per combattere due “automatismi” che vedo spesso quando si affrontano i temi di inclusione.

Quello che faccio è infatti partire da due domande, per combattere i:
“Ma dai, non sarà mica un problema così grande…”
oppure
“Io al tuo posto non mi sarei offeso.”
Vediamole insieme!
Domanda 1 — “Sto dando per scontato che il mio vissuto sia l’unico possibile?”
Questa è la trappola numero uno.
La chiamiamo empatia, ma in realtà è egocentrismo travestito da buon senso.
Esempio tipico:
“Io non ho mai avuto bisogno di vedere qualcuno che mi somiglia in TV per sentirmi rappresentato.”
Certo.
Probabilmente sei una persona bianca, etero, cisgender, senza disabilità… e vivi in un mondo che da sempre ti rappresenta ovunque: film, spot, pubblicità, cartoni, persino nei manuali scolastici.
Quando dici “io non ne ho bisogno”, quello che in realtà stai dicendo è:
“Io non so cosa si prova a non averlo, quindi per me non esiste come problema.”
Ecco la mancanza di empatia strutturale: il tuo punto di vista diventa la norma, tutto il resto un’eccezione.
Non riconosci la possibilità che esistano esperienze che tu non puoi comprendere perché non le hai mai vissute. E se non puoi comprenderle, le invalidi.
La prima domanda, quindi, serve a scardinare la bolla del proprio privilegio sociale:
“Sto parlando da dentro la mia esperienza, o sto ascoltando davvero la tua?”
Domanda 2 — “Sto giudicando come l’altro dovrebbe sentirsi, invece di accettare come si sente davvero?”
Questo è il secondo autogol dell’empatia: l’invalidazione emotiva.
È quando scambi la tua sensibilità per metro di misura universale.
Esempio:
“Non credo che quella battuta sia una molestia, ti stai offendendo per nulla.”
In una frase del genere ci sono due messaggi nascosti:
“Io non mi sarei offeso” (quindi il problema sei tu).
“Io ho deciso cosa è accettabile e cosa no” (quindi ho il potere di definire la tua esperienza).
È il modo più veloce per chiudere qualsiasi dialogo.
Ma per emopatia, ascolto e dialogo aperto… non resta nessuno spazio. Perché l’empatia non è “immaginare cosa proverei io al tuo posto”. È riconoscere che tu, al tuo posto, provi qualcosa che io non posso capire del tutto — ma che scelgo comunque di prendere sul serio.
La seconda domanda, quindi, serve a spostare il focus:
“Sto ascoltando per capire, o sto ascoltando per giudicare?”
Empatia: da soft skill a scomodità necessaria
Quando parliamo di empatia nella DE&I, non stiamo parlando di “gentilezza”, ma di una competenza che sia il primo passo per mettere in discussione la propria prospettiva. Per riconoscere che certe esperienze non ci appartengono, e che — sorpresa — non serve che ci appartengano per essere reali.
Questa forma di empatia non serve quindi per sentirsi brave persone o di “essere nel giusto”, ma ha la funzione di spostare il focus: accettare di non essere al centro e considerare i panni altri tanto validi quanto i nostri, anche se non li vivremo mai.
Fatto questo passo fondamentale, si può davvero iniziare a costruire un ambiante che si fondi sul rispetto reciproco e che veramente porti beneficio al benessere di tutta l’organizzazione.
Il primo passo per cambiare davvero
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